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Ultimo dei cinque figli di Giuseppina
Ricci e di Domingo Montale, grosso commerciante, cresce in un clima di benessere
economico, impara inglese, francese e spagnolo.
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Appassionato
di teatro lirico studia canto.
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Costretto negli anni dell'adolescenza ad abbandonare gli studi regolari per la
sua cattiva salute, continua però a leggere molto: Rousseau, Baudelaire, Mallarmé,
Valéry, Campana e Onofri, e i classici Cervantes e Manzoni.
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Passa le vacanze estive nella villa paterna di Monterosso, nelle Cinque Terre, in
mezzo a quella natura, di fronte a quel mare che si configurano come i luoghi della sua
prima poesia: «Mi affascinava la solitudine di certe ore, di certi paesaggi ... » dirà
il poeta.
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A vent'anni, nel '16, scrive il suo primo capolavoro: «Meriggiare pallido e
assorto».
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E poi chiamato sotto le armi e partecipa alla prima guerra mondiale come
ufficiale di fanteria: esperienza significativa ma non decisiva come per
Ungaretti.
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Nel primo lustro dell'immediato dopoguerra, tempo liricamente assai fecondo,
significative sono le letture filosofiche: Gentile, poi Croce, «ma forse - preciserà
Montale negli anni in cui composi gli Ossi di seppia (tra il '20 e il '25) agì in me la
filosofia dei contingentisti francesi, del Boutroux soprattutto», ovvero quel pensiero
che si oppone al determinismo positivistico, alla spiegazione di tutta la realtà entro
ferree leggi, e che definisce fondamentale nell'uomo la libertà morale e l'esperienza
etico-religiosa.
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Il 1925 è un anno importante per Montale: come critico «scopre» Italo Svevo,
come uomo immerso nelle vicende del suo tempo aderisce al Manifesto degli intellettuali
contro il fascismo, promosso da Benedetto Croce, infine come poeta vede uscire al pubblico
i suoi Ossi di seppia, stampati da quel Piero Gobetti che solo pochi mesi dopo morirà a
seguito di violenze fasciste.
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Nel libro subito evidente è la volontà di staccarsi dalla precedente tradizione
aulica-accademica, carica di toni retorici, per affermare invece una poesia di timbro
familiare e dialogico, rivolta ad un interlocutore-lettore vicinissimo. La famosa lirica
I limoni, in apertura di volume, esordisce programmaticamente
così:
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano ragazzi
qualche Sparuta anguilla:
le viuzze che seguono ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è lodore dei limoni.
Vedi. in questi silenzi in cui le cose
sabbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
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La polemica è soprattutto nei confronti di Carducci, D'Annunzio e Pascoli di cui
Montale stigmatizza le rispettive «malattie» in questo brano di articolo scritto proprio
in coincidenza della pubblicazione degli Ossi. «Lo stile, il famoso stile totale che non
ci hanno dato i poeti dell'ultima illustre triade, malati di furori giacobini,
superomismo, messianesimo ed altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e
avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell'arte loro più che del rifar la
gente». La saggia e umile coscienza del proprio limite umano e poetico apre però ad una
attesa, ad una speranza di incontrare «qualcosa» che dia senso al tutto, come dirà il
poeta anni dopo: «Scrivendo il mio primo libro (
) volevo che la mia parola fosse
più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi
pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di
essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo». Con il '27
inizia il ventennio fiorentino del poeta. Ha finalmente un lavoro stabile (impiegato
presso una casa editrice), poi diventa direttore del Gabinetto Scientifico Letterario
Vieusseux (sarà sollevato dall'incarico nel '38 dal regime per motivi politici). Scrive
su «Solaria». Stringe amicizia con Vittorini e Gadda, poi con altri poeti e critici
quali Bo, Contini, Luzi, Sereni. Conosce Drusilla Tanzi, allora moglie di un critico
d'arte: diventerà la sua compagna e più tardi sua moglie, cantata in poesia con
l'appellativo di «Mosca».
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Ma l'incontro decisivo, fondamentale per comprendere mezzo secolo di sua poesia,
è un altro, misteriosissimo: una donna sulla cui identità Montale ha mantenuto il
segreto per tutta la vita, una figura angelica, una presenza salvifica. Per ora anche noi
manteniamo il segreto in attesa di decifrarne i segni e svelarne il «volto» quando la
incontreremo nelle liriche del Nostro.
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Sono questi gli inni del secondo grande libro montaliano: Le occasioni,
1928-1939. Se negli Ossi era centrale la riflessione su di sé, l'autobiografismo, la
proiezione di sé in un simbolo naturale (il «mare fermentante», l'«ombra» stampata
sul «muro»), il perno di questo secondo libro è l'Altro da sé, una presenza umana o
naturale che viene incontro al poeta, entro una «drammatica azione di ricerca della
salvezza» (M. Forti). Così la lirica si fa più ermetica, più chiusa; così la parola
si fa più suggestiva, cioè tesa a non dire ma a suggerire, a portare celato un mistero
ed evocarlo. Spiegherà Montale: «Non pensai a una lirica pura nel senso ch'essa poi ebbe
anche da noi, a un giuoco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse
contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte
esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto
bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta». Negli anni prebellici e
durante la seconda guerra mondiale Montale è a Firenze. Ormai privo dello stipendio del
Viesseux, vive di collaborazioni letterarie e di traduzioni (Shakespeare, Joyce,
Corneille, Cervantes, ecc.).
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Nella sua poesia si approfondisce il colloquio a distanza con la salvifica
ispiratrice: «sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza
ragione, mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria». E siamo così
all'inizio del terzo libro: La bufera e altro, 1940-1954.
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In piena stagione neorealista Montale, estraneo sempre alle mode, procede dritto
per la sua strada: «L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la
condizione umana in sé considerata; non questo o quell'avvenimento storico. Ciò non
significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, volontà, di
non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una
totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non
poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più
tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano
in me le ragioni dell'infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi
fenomeni». Per questa sua tensione verso l'essenziale e l'assoluto, per questa ontologica
disarmonia, guardando retrospettivamente la sua opera Montale potrà collocarsi nel solco
di «una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente
decadente, che molto all'ingrosso si può dire metafisica».
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Nell'ultimo dopoguerra è assunto dal '48 al «Corriere della Sera»; è senatore
a vita dal '67 e Nobel per la letteratura nel '75. La saggia e amara ironia degli ultimi
libri di poesia (Satura, 1962-1970, Diario del '71 e del 72, Quaderno di quattro anni,
Altri versi) è ancora illuminato dalla memoria dell'angelica ispiratrice.
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Muore il 12 settembre 1981
di Roberto Filippetti |
POEMI:
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Personae
separatae Come la scaglia d'oro che si
spicca
dal fondo oscuro e liquefatta cola
nel corridoio dei carrubi ormai
ischeletriti, così pure noi
persone separate per lo sguardo
d'un altro? È poca cosa la parola,
poca cosa b spazio in questi crudi
noviluni annebbiati: ciò che manca,
e che ci torce il cuore e qui m'attarda
tra gli alberi, ad attenderti, è un perduto
senso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi,
figure parallele, ombre concordi,
aste di un sol quadrante i nuovi tronchi
delle radure e colmi anche le cave
ceppaie, nido aIle formiche. Troppo
straziato è il bosco umano, troppo sorda
quella voce perenne, troppo ansioso
lo squarcio che si sbioccha sui nevati
gioghi di Lunigiana. La tua forma
passò di qui, si riposò sul riano
tra le nasse atterate, poi si sciolse
come un sospiro, intorno e ivi non era
l orror che fiotta, in te la luce ancora
trovava luce, oggi, non più che al giorno
primo già annotta. |
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Piccolo testamento Questo che a flotte balugina
nella calotta de! mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d'officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo questiride posso
lasciarti a testimoniafiza
d'una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò piu lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana i fara infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo lali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è lora.
Non è uneredità, un portafortuna
che può reggere allurto dei monsoni
sul fil di raeno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
no può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue hagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero. |
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